In campo, con passione. A tu per tu con Arturo Santini Arturo Santini, presidente della Cesenate (Foto: La Cesenate)
Agroecologia

In campo, con passione. A tu per tu con Arturo Santini

La storia di un’azienda, La Cesenate, che affonda le proprie radici nel dopoguerra scegliendo con grande anticipo la qualità biologica. E che adesso punta a condividere, anche attraverso Terranea, una nuova cultura alimentare nel segno dell’agroecologia

Marco Fratoddi 13 Aprile 2023

«La nostra è una famiglia di agricoltori, con antiche radici nella terra. Anche io da bambino passavo parecchio tempo in campagna. E ancora oggi, quando nella nostra azienda si sono aggiunte altre attività, che vanno dall’ambito sementiero alla trasformazione, ci riteniamo innanzitutto agricoltori e frutticoltori, essenzialmente biologici, legati in maniera profonda al nostro paesaggio, ai saperi del nostro mestiere». Incontriamo Arturo Santini nel cuore del mondo in cui è nato, quel fazzoletto di Romagna fra l’Appennino e la riviera, da sempre a forte vocazione agricola, dove si trova La Cesenate: il gruppo agroalimentare fondato nel 1949 dall’agronomo Luigi Rossi, suo nonno, che lui guida ormai da 35 anni. Un’occasione preziosa per confrontarci sulle sfide di questo settore in una fase segnata da molte incertezze, basti pensare agli sconvolgimenti climatici, alla guerra in Ucraina che ha portato in evidenza il nodo della sovranità alimentare, alla lenta fuoriuscita dalla pandemia.

Ma anche da molti processi di rigenerazione economica, sociale ed ambientale, di cui l’agroecologia rappresenta l’esempio più chiaro, che proprio Terranea, il magazine voluto dalla Cesenate, vuole interpretare.

Arturo Santini, anche il comparto agricolo s’interroga sull’adeguatezza dei propri modelli al cospetto delle problematiche che attraversano la nostra epoca. Quali sono le chiavi giuste perché la nostra filiera agroalimentare, con le sue peculiarità, sia protagonista del cambiamento?

Innanzitutto dobbiamo mettere a fuoco un aspetto, che aiuta a comprendere i punti di forza dell’agricoltura italiana, vale a dire il fatto che disponiamo di territori molto diversi, che rendono difficile ogni standardizzazione e che hanno permesso, al contrario, la nascita di molti marchi che evidenziano le tipicità, come i famosi Dop e Doc. Altrove, negli Stati Uniti ma anche in Francia o in Germania, le grandi pianure consentono invece di lavorare in maniera estensiva, per certi aspetti anche più facilmente. La nostra forza perciò deve essere proprio quella di valorizzare la grande varietà di prodotti locali che rispecchiano la storia e le caratteristiche dei territori da cui provengono, ferma restando l’utilità di guardare ad un orizzonte più ampio, come confermano alcune produzioni d’interesse globale come il Parmigiano reggiano o il prosciutto di Parma.

 

Un'agricoltrice guarda il tramonto sui campi de La Cesenate

Anche l’agricoltura si misura con la sfida della sostenibilità (Foto: La Cesenate)


In un quadro di questo genere, segnato dalla presenza di molte diverse condizioni colturali, come si può applicare una politica agricola unitaria?

Proprio adattandola a queste peculiarità, regione per regione e anche più nel dettaglio, nei singoli territori. E formando i consumatori perché imparino a riconoscere la qualità e a distinguere le molteplici varietà che rendono la nostra agricoltura unica al mondo. Ecco, secondo me il punto principale è proprio questo: la strategia “Farm to fork” e il “Green deal” europeo accompagneranno certamente i produttori in questa direzione, anche la nuova Pac appena varata, di cui si attendono i decreti attuativi, potrà dare molti strumenti alle aziende. Ma ho l’impressione che si stia lasciando da parte l’altra faccia della medaglia, vale a dire quella educativa, che permette a chi acquista di farlo con competenza. È fondamentale che questo avvenga, anche per garantire un futuro alle nostre identità agricole.

Veniamo al tema della sostenibilità, di cui si parla molto ormai in tutti i settori economici, anche grazie agli indirizzi comunitari di cui parlava. Che cosa significa per lei questo concetto in agricoltura?

Significa ritrovare la comunione con la natura sotto tre punti di vista: quello ambientale perché permette di proteggere le basi della biodiversità, quello sociale che si ottiene andando a recuperare i territori marginali per restituirgli un valore attraverso le tipicità. E poi quello economico, perché il cerchio si chiuda nel rapporto con chi acquista. Sono tutti e tre obiettivi alla portata dell’agricoltura italiana, sapendo che dobbiamo recuperare le nostre tradizioni con lo sguardo rivolto al futuro, perché non si può certo coltivare come si faceva cinquanta o cento anni fa: innovare è fondamentale per essere all’altezza delle sfide che abbiamo davanti. Con la consapevolezza che l’agricoltura non è un settore economico come gli altri, l’agricoltore è innanzitutto un protettore del territorio: basti pensare ai diversi disastri cui abbiamo assistito anche in Italia negli ultimi mesi, dovuti ai fenomeni estremi che si sono abbattuti su territori privi di manutenzione anche dal punto di vista idrogeologico. Se l’agricoltura fosse presente, come lo era un tempo, nei territori marginali molte conseguenze negative si sarebbero potute evitare.

 

Un panorama agricolo con i campi de La Cesenate

I nostri territori sono caratterizzati da una forte diversità, che va interpretata e valorizzata (Foto: La Cesenate)

Ma oggi la sostenibilità economica nel biologico è garantita?

Spesso e volentieri no, perché oggi il delta fra le produzioni biologiche e quelle convenzionali è molto basso. Questo è un grande problema perché produrre in maniera biologica costa di più, anche a causa del fatto che spesso andiamo a praticare il biologico su terreni  poco vocati per alcune colture: questo è un aspetto fondamentale in agricoltura e ancora di più nel biologico, soltanto rispettando le caratteristiche pedologiche, ambientali e meteorologiche del territorio possiamo ottenere delle produzioni, dal punto di vista quantitativo, simili a quelle convenzionali, rendendo perciò il biologico sostenibile. Detto questo coltivare in maniera biologica resta comunque più costoso ma i benefici vanno al di là dei ritorni commerciali: si conferma l’utilità sociale del biologico, che passa per il rispetto del territorio anche perché permette alle persone che vi abitano di vivere in una condizione di maggiore benessere e salubrità.

Gli spazi nel mercato però ci sarebbero, come confermano le tendenze degli ultimi anni, facendo così uscire definitivamente il biologico dalla nicchia. Quale dovrebbe essere secondo lei la leva giusta?

Credo non ce ne sia una soltanto. Bisogna certamente educare i consumatori a riconoscere il giusto prezzo perché il lavoro contadino sia retribuito quanto merita, specialmente se investe in qualità e salvaguardia ambientale. Allo stesso tempo la parte pubblica dovrebbe farsi carico, almeno in parte, della funzione d’interesse generale che svolge l’agricoltura biologica perché i consumatori non debbano pagare dei prezzi troppo elevati di cui non comprendono le ragioni. Evito di entrare troppo nei dettagli ma si potrebbero applicare degli sgravi sull’iva, sostenere il risparmio energetico che deriva dalle coltivazioni biologiche come si è fatto nell’edilizia con le misure per l’efficientamento. Spetta alla politica valutarlo perché esistono degli equilibri fra i diversi prodotti e all’interno dei conti pubblici ma se vogliamo un paese più pulito dobbiamo passare anche attraverso questi strumenti.

 

Un frutteto de La Cesenate durante la raccolta

La Cesenate è nata 35 anni fa e ha praticato da subito il biologico (Foto: La Cesenate)

E l’agricoltura convenzionale quale futuro potrà avere, a quali condizioni può tornare utile negli scenari dell’innovazione? È un dialogo possibile?

È giusto praticare l’agricoltura biologica, come accennavo prima, su quei terreni che possiedono una vocazione per alcune varietà specifiche. In alcuni contesti, per esempio in Pianura padana, non è facile praticare il biologico, perché i terreni talvolta non sono adatti a particolari coltivazioni o il clima è troppo umido, quindi non si creano sempre le condizioni adatte. L’agricoltura convenzionale si dovrà avvicinare al biologico, utilizzando sempre meno pesticidi e praticando un modello sempre più sano. Dobbiamo fare in modo, attraverso l’esempio del biologico, che tutta l’agricoltura sia sempre più pulita, perché anche gli agricoltori convenzionali svolgono quella funzione di protezione del territorio che ricoprono i coltivatori diciamo di nicchia.

Resta però il problema dei prodotti a “residuo zero” diffusi negli ultimi anni, quelli cioè che presentano tracce di pesticidi al di sotto di una determinata soglia, poiché non sono stati utilizzati durante l’ultima fase e dunque sono decaduti nel tempo. Rischia di essere una comunicazione commerciale ingannevole?

Può esserlo nella misura in cui i consumatori siano o non siano preparati su che cosa vuole dire “residuo zero” e su qual è la differenza con il biologico: il primo è un approccio prevalentemente economico e si centra sul prodotto. Il secondo invece richiede un approccio mentale completamente diverso, anche dal punto di vista etico: noi ci poniamo il problema di come gestire le nostre coltivazioni, anche a tutela degli ecosistemi, non soltanto del risultato che otteniamo. Una sua validità può averla se interpretiamo il “residuo zero” come un passaggio verso il biologico oppure come uno strumento per quelle aziende che risiedono nelle zone dove il biologico è di difficile applicazione e dunque gli agricoltori possono sperimentare una soluzione meno impattante. Ma formare i consumatori è fondamentale perché comprendano questa differenza.

 

Una vista ravvicinata di semi fra le dita

I semi sono alla base dei processi di germinazione (Foto: La Cesenate)

Andiamo dunque alle origini del processo produttivo, al seme e alla ricerca che riguarda l’elemento alla base della germinazione, della vita vegetale. Su cosa sta puntando la sperimentazione in questo ambito?

Essenzialmente sull’ibridazione, vale a dire sulla riproduzione di quanto avviene in campagna, cioè unendo varietà diverse per ottenerne una nuova che permetta vantaggi qualitativi e quantitativi. Oggi ci sono tecniche miglioramento genetico diverse, come l’ingegneria con tutti i limiti che sono ormai noti o altre che si basano invece sulla riproduzione in laboratorio, senza utilizzare materiale genetico esterno alla pianta stessa. Sono tecniche che vanno oltre l’ibridazione classica e che sono state messe in discussione anche all’interno dell’agricoltura biologica. Personalmente non voglio esprimere giudizi, mi limito a dire che tali risultati potrebbero riscontrarsi anche in natura.

È un settore nel quale anche la Cesenate è impegnata?

È importante per noi approfondire la conoscenza in questo campo ma all’interno della Cesenate pratichiamo soltanto l’ibridazione classica, non pratichiamo ovviamente ingegneria genetica né altre tipologie di sperimentazione. Cerchiamo di migliorare la qualità delle sementi proprio al fine di interpretare la diversità del territorio italiano e di fornire le soluzioni più adeguate per migliorare la resa, il sapore, la resistenza ai patogeni, la capacità di adattamento alle molteplicità condizioni colturali, sfruttando anche le caratteristiche delle antiche varietà che conserviamo. L’agricoltura biologica d’altro canto ha bisogno di ricerca, molta più di quanta se ne stia facendo in questa fase, perché non potendosi servire di molecole chimiche parte svantaggiata di fronte a molti fenomeni del mondo globale, penso ad esempio alla cimice asiatica. Il mondo universitario in questo può fare molto di più e misurarsi con la realtà, dialogare con il mercato, le imprese e gli agricoltori.

 

Un campo de La Cesenate con un trattore nel mezzo

L’agricoltura può rappresentare un futuro per molti giovani (Foto: La Cesenate)

Infine, pensando ai lettori di Terranea, in particolare ai molti giovani che guardano con interesse verso uno stile di vita sano, coerente con i bisogni del Pianeta e del prossimo, vuole dirci tre parole chiave per il futuro?

Ve ne do una sola: passione. Quella passione che deve portarli a dare il massimo per ciò in cui credono, a vivere il lavoro come qualcosa in cui si realizzano, che li diverta, non solo come un dovere. A me è accaduto, ho avuto questa fortuna. Certo, l’agricoltura è un settore complicato, bisogna investire parecchio e sul lungo periodo, le variabili sono molte. Ma è anche un’impresa appassionante. E penso che per molti giovani una buona agricoltura di qualità, al passo con i tempi, possa rappresentare un terreno nel quale credere.

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