Paolo Bissaro, trentino di nascita ma riminese d’elezione, è un cuoco dallo spirito ribelle. Destinato in origine ad una carriera manageriale nel mondo del turismo, dopo essersi perfezionato in Svizzera nel campo dell’analisi gestionale ha deciso di seguire la sua vera aspirazione. A modo suo, ovviamente: negli anni Novanta, quando tutti i giovani chef andavano a formarsi a Parigi, rifiutava l’offerta di lavorare in un ristorante con due stelle Michelin nella Ville Lumière per recarsi in Bulgaria a distillare le rose con gli agricoltori e poi in Grecia ad imparare dai pastori come si fa la ricotta. Quindi il trasferimento a Rimini, dove è approdato nel Duemila, per un’attrazione fatale verso la città della riviera:
«Ormai pronuncio le “c” e le “z” come un riminese madrelingua – racconta – Sono stato accolto in questa meravigliosa terra e come me tanti. E questo è un dato importante, perché tra un decennio quella che noi chiamiamo tradizione sarà con ogni probabilità proseguita da mani di colori diversi e da uno sguardo con occhi arcobaleno».
Sapori da scoprire
La sua d’altro canto è la generazione che si è formata nelle cucine dei centri sociali, quando si pensava che il concetto di mangiare bene, curare gli ingredienti e le preparazioni nel rispetto dei territori e dei produttori potesse rappresentare in qualche modo un atto politico. Allo stesso tempo però Paolo Bissaro ha portato avanti una preziosa ricerca sugli aspetti organolettici dei cibi e sui processi di trasformazione alimentare, in collaborazione con l’Università di Bologna e con alcuni importanti esperti di settore e colleghi chef.
Ed è lungo questa duplice via che probabilmente ha messo a punto la sua peculiarità artistica, verrebbe da dire, più che professionale: cercare tutte le opportunità di sapore che si concentrano in un osso, in una lisca essiccata, in una testa di pesce, in un tendine di bovino. E ancora, nelle acque di vegetazione ed in quello che possono sviluppare questi ingredienti, una volta che siano sottoposti a diverse lavorazioni come la stagionatura, la disidratazione, la fermentazione, l’invecchiamento. «Sono anni – riprende – che cerco di trovare delle soluzioni che sappiano di buono per utilizzare tutto il cibo che ho a disposizione». Poi aggiunge:
«Osservare questi fenomeni di trasformazione degli ingredienti è come seguire lo scorrere dell’anno solare, perché seguono dei cicli di vita e di maturità simili al passaggio delle stagioni. E ogni passaggio ha una sfumatura di sapore diverso che si intensifica o che diventa volatile».
Sostenibilità autentica
Quella di Bissaro, insomma, è una storia che parla allo stesso tempo di tradizione e sperimentazione, gusto ancestrale e passione per il futuro. Un percorso nel quale il rispetto dei processi naturali rappresentano la ragion d’essere della sua esperienza:
«Bisogna sempre ricordare che la terra è in perenne rivoluzione e contaminazione»
E la sostenibilità è diventata, un piatto dopo l’altro, il suo principale valore di riferimento in termini ambientali, sociali, economici, culturali. Purché sia autentica: «Oggi si fa un gran parlare di sostenibilità, tanto che ho il terrore che diventi una moda passeggera, una nuova tendenza di mercato per cannibalizzare ulteriormente un tessuto storico ormai ridotto all’osso. La sostenibilità invece richiede un tempo di analisi, di studio, di fallimento e di riprogettazione per fare in modo che diversi saperi e professioni dialoghino fra loro e procedano in maniera armonica».
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Una nuova sfida
Oggi Paolo Bissaro vanta collaborazioni prestigiose con ristoranti di diverse città italiane. Un nuovo punto di svolta però si avvicina. Sta aprendo infatti la «sua cosa», come ama definirla: una casa nelle campagne riminesi dove si potrà provare la sua cucina e soggiornare, nel segno della convivialità ma anche della riflessione. Al posto del menù sul tavolo ci sarà la “Carta dei diritti umani” e la “Dichiarazione Universale dei diritti dell’animale”.
Un luogo nel quale sperimentare ancora sulla via del cibo che si rigenera, con le sue ricette d’eccellenza, a dispetto del principio di povertà su cui si basano, vale a dire la valorizzazione degli scarti. Ma anche dove cercare delle risposte, insieme a quanti verranno a trovarlo, alle domande che più gli stanno a cuore: come preparare del cibo ad impatto sempre più basso? Come tutelare la filiera del lavoro che garantisce una materia prima unica, coniugando retribuzione e qualità della vita di quanti ci lavorano? Domande che la contemporaneità rende ancora più stringenti e che spiegano la dimensione etica della sua sfida:
«Sarà indispensabile fare capire a tutti – conclude – che la proteina animale non è illimitata nella sua disponibilità e che il suo sacrificio deve essere onorato con il suo completo utilizzo».