L’idea di Siamo foresta, la mostra che si snoda al primo piano della Triennale di Milano fino al 29 ottobre, nasce in Francia, più precisamente nella Vandea, dove si trova la proprietà dei genitori di Fabrice Hyber. Qui l’artista, nato nel 1961 ed eletto nel 2018 all’Académie des Beaux-Arts, ha seminato migliaia di essenze a partire dagli anni ‘90 spinto da un puro impulso creativo.
«Semino alberi come semino segni e immagini – dice –Perché le piante sono semi di pensiero che sono visibili, si fanno strada e crescono».
Creatività a quattro mani
In questo il luogo Hyber converge nel 2023 con l’artista amazzonico Sheroanawe Hakihiiwe per creare a quattro mani delle opere ispirate da un ecologismo positivo. Nel quale cioè la foresta rappresenti il terreno di un ripensamento delle relazioni fra i sapiens e gli altri viventi, che permetta di superare prima di tutto l’antropocentrismo e ricollochi la presenza umana nel più ampio ecosistema planetario. Non per nulla una delle frasi-guida del connubio tra i due è: «Dobbiamo riforestare le menti per curare la terra».
Visioni indigene
Non bastava però la foresta francese, per quanto rigogliosa, a veicolare questo messaggio. Grande protagonista alla Triennale infatti è la foresta per eccellenza: quella amazzonica. Perché il nucleo di partenza sono le opere di Hyber e Sheroanawe ma negli altri spazi della mostra dilaga il lussureggiante racconto visivo degli artisti brasiliani, peruviani, venezuelani, colombiani coinvolti in questa esperienza, dal grande impatto in termini di colori e forme, uniti tutti da un tema: quello dell’osmosi e della continuità tra vita vegetale, animale e umana che quella regione della Terra, nonostante le minacce che subisce, ancora riesce ad esprimere.
Sono autori viventi o vissuti magari a San Paolo, Rio de Janero o Belo Horizonte ma in rapporto diretto o acquisito col mondo indigeno dell’Amazzonia. E le opere sono decisamente stranianti poiché nutrite dei miti, delle credenze e, in ultima istanza, della cultura di quel mondo, cominciando dalla comunità Yanomami, alla quale Sheroanawe appartiene.
È attraverso di loro che la mostra letteralmente esplode per forme, colori, miscidazioni, fonti di ispirazione, visioni originali.
Composizioni da sogno
Siamo all’inizio quando una grande tela di Solange Pessoa, artista brasiliana nota per l’uso di materiali naturali e per i richiami alla preistoria, con la grande tela intitolata Mundao II rompe ogni schema, rappresentandoci con una vernice a base di ossido di ferro forme di vita fantastiche o esistenti. E via poi con le opere di Bruno Novelli, nato nel 1980 a Fortaleza, che mescolano animali ancestrali, paesaggi da sogno, flora lussureggiante e modernità predatoria. E poi con la complessa composizione intitolata Natureza Espiritual da Realidade che Luiz Zerbini, di San Paolo, ha creato fra il 2012 e il 2019. Il lavoro nasce dalla raccolta di oggetti, piante o anche rifiuti «evocativamente interessanti» da parte dell’autore «durante le sue esplorazioni del territorio urbano e non». Dalla conchiglia alla candela d’auto . Perché il peggio della modernità sta sempre lì: assedia, aggredisce, preda…
Ibridazioni naturali
E tuttavia non è la denuncia a prevalere. In Siamo foresta tutto è ribaltato: è la natura che ci dice chi siamo e ci segna la strada. E allora grande ruolo acquistano le culture indigene. Le opere di Brus Rubio Churay, pittore autodidatta dell’amazzonia peruviana, della brasiliana Adriana Varejão che indaga da decenni con molteplici tecniche il rapporto fra identità locale e colonialismo, di Joseca Mokaeshi, il cui padre era un importante sciamano della sua comunità yanomamö o ancora quelle di Jaider Esbell, scomparso due anni fa e impegnato anche come educatore nella difesa dei diritti dei popoli nativi, sono tutte nutrite, pur nella diversità delle tecniche, di personaggi ibridi, metà umani e metà animali o vegetali.
E poi di riti e miti tradizionali, piante psicotrope, cosmologia indigena, spiriti ausiliari delle pratiche di formazione sciamanica raccolte dai canti antichi…
Nudi come un albero
Chiude la mostra Alex Cerveny, l’artista di San Paolo che fa un po’ da filo conduttore del percorso, perché i nomi degli artisti sono illustrati da lui. E i suoi nudi sono sempre associati agli alberi: «Fino a diventare essi stessi alberi», dice.
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