Nella grande distribuzione, al ristorante, nelle rivendite specializzate, sui banchi dei mercati contadini e anche di quelli rionali, persino tramite l’e-commerce o i gruppi d’acquisto: il cibo biologico è sempre di più nelle nostre vite. Lo dimostra l’89% delle famiglie italiane che, secondo l’Osservatorio Sana 2022 di Nomisma, ha acquistato bio almeno una volta durante l’ultimo anno. Nel 2012 questa percentuale superava appena il 50%. Un vero e proprio boom che oggi, conferma l’ultima edizione di Bio Bank, porta il biologico nella Penisola sopra i 5 miliardi di euro.
Ma adesso, con uno scenario internazionale segnato dalla guerra e dalla crisi climatica, tanto da ridurre in un anno del 54% la nostra capacità di spesa, come si prospetta il mercato? E il comparto italiano del bio, a 12 mesi dall’approvazione della Legge n. 23/2022 sull’agricoltura biologica, saprà competere nel contesto internazionale, con il Green Deal che annuncia una transizione dei modelli agricoli decisamente orientata verso l’innovazione e la sostenibilità? Infine i consumatori, quando vanno a fare la spesa, ne sanno abbastanza? Distinguono il vero bio dalle altre offerte che si spacciano per tali, tipo il “residuo zero”?
Superficie da leader
Cominciamo dal fatto che in quanto a superficie al momento siamo leader, insieme a Spagna, Francia e Germania, almeno nel Vecchio Continente. In Italia, infatti, già il 17,4% delle coltivazioni è bio, parliamo di circa 2,2 milioni di ettari, a fronte della media europea che si arresta al 9%. A questo ritmo, con una crescita del 4,4% l’anno (secondo il Sinab, che monitora l’andamento del settore), l’obiettivo del 25% a biologico entro il 2030, previsto dalla strategia europea Farm to fork, è alla nostra portata, anche se in maniera disomogenea fra le diverse regioni. L’Italia si aggiudica il gradino più alto del podio per quanto riguarda il numero dei produttori bio con oltre 75mila operatori sui 440mila attivi in Europa, stando ai dati 24esimo report The world of organic agriculture 2023 curato dall’Istituto di ricerca sull’agricoltura biologica Fibl in collaborazione con Ifoam, la Federazione mondiale delle associazioni del biologico, presentato alla Biofach di Norimberga lo scorso febbraio. Un primato che sottolinea anche Luigi Guarrera, esperto Sinab e consulente del Ciheam-Istituto Agronomico Mediterraneo di Bari:
«Secondo i nostri dati più recenti, di prossima pubblicazione, nel 2021 c’è stato un aumento di aziende produttrici pari a circa il 5%. Dal 2010 l’aumento è stato di circa l’81%, con più di 38mila nuovi operatori. Da questo punto di vista non ci batte nessuno».
Export prezioso
Anche la crescita dell’export nel 2022 è netta: con il 16% in più rispetto all’anno scorso il bio Made in Italy raggiunge oltre confine i 3,4 miliardi di euro. Se dunque nel mercato interno, dal 2012 ad oggi, si è registrata una crescita del 131%, quella dell’export è ancora più sfolgorante con il 181% in più. In particolare, i prodotti bio rappresentano oltre il 6% delle esportazioni totali dell’agroalimentare italiano, mentre nel comparto vino la quota raggiunge l’8%. Ma bisogna stare in guardia, perché ci sono altri paesi europei, in primis Francia e Spagna, che stanno investendo molto, come avverte Maria Letizia Gardoni, presidente della neonata Coldiretti Bio: «La differenza è che da noi il bio si concentra soprattutto su colture che richiedono tantissima competenza, fruttiferi, orticole, agrumeti, vigneti. Si tratta di comparti molto difficili, che richiedono capacità d’innovazione. Questo è un elemento di forza su cui bisogna continuare a credere».
Consumi in bilico
È sul versante dei consumi invece, dopo il boom del biennio pandemico 2020-2021, che le tendenze del cibo senza pesticidi nel Belpaese sono più difficili da interpretare. Gli acquisti in ambito domestico, sempre secondo Nomisma, mostrano infatti un calo dello 0,8%. La flessione investe in particolare i canali specializzati, la grande e media distribuzione biologica, che durante la pandemia era letteralmente decollata, con una crescita del 28,8% come rilevavano Aiab, FederBio e AssoBio già a maggio 2020.
In queste rivendite, sempre guardando agli ultimi 12 mesi, gli acquisti sono scesi dell’8%. È evidente come in questa fase nelle opzioni degli italiani incidano anche le altre crisi in atto, in primis le ripercussioni della guerra in Ucraina, con l’inflazione sui beni alimentari che ha segnato un severo +10,4% ad agosto 2022. La perdita del potere d’acquisto per nucleo familiare, stimata sempre da Nomisma in media intorno ai 2.300 euro nell’anno in corso, sta facendo il resto con l’85% delle famiglie che ha iniziato, già da tempo, ad adottare strategie di risparmio.
Il boom di discount e vita sociale
Così il biologico regge negli iper e supermercati, con un fatturato da 1,4 miliardi di euro a luglio 2022, inferiore tuttavia del 2,0% rispetto allo stesso mese dello scorso anno. Si consolida nell’e-commerce, confermando il trend iniziato con i vari lockdown con 78 milioni di euro. E cresce nei canali più centrati sul basso prezzo, finora poco battuti dal bio, vale a dire i discount e gli hard discount, che hanno raggiunto vendite di biologico pari a 272 milioni di euro: più del 14% rispetto all’anno precedente. E il senso di questo dato, secondo Gardoni, è chiaro:
«Il bio sta diventando da scelta per intenditori a prodotto di largo consumo. Da questo punto di vista la vendita nella grande distribuzione ha aiutato il settore ad essere conosciuto da un pubblico più ampio e lo ha reso sicuramente più accessibile».
Il vero traino però è rappresentato dal consumo extra domestico, con più di sei italiani su 10 che hanno mangiato organico nella ristorazione collettiva (+20%) e in quella commerciale (+79%), superando come valore complessivo il miliardo di euro. Le persone, con la ripresa della vita sociale che è seguita alla fine delle restrizioni da Covid-19, hanno evidentemente portato fuori casa una parte delle buone abitudini alimentari acquisite durante la pandemia, grazie anche all’ampliamento in questa direzione dell’offerta gastronomica che ha fiutato l’opportunità.
Una questione di (bio)educazione
Certo è che di spazio da conquistare ce n’è parecchio visto che, secondo l’Istat, l’incidenza complessiva del biologico sulla spesa degli italiani è del 4% circa, di gran lunga superiore a quella del decennio precedente (nel 2011 era all’1,7%) ma comunque con spazi di crescita considerevoli. Che cosa frena questo processo? Sta soltanto nel prezzo il fattore limitante? «Produrre biologico ovviamente costa di più – spiega Luigi Guarrera – Le rese sono minori, ci vuole più conoscenza, esperienza, quindi un gap ragionevole, del 10 o 20% ci sarà sempre. Il consumatore deve accettarlo e non è semplice».
È fondamentale perciò educare i consumatori e praticare una buona comunicazione: «Bisogna far capire che è meglio mangiare un po’ meno ma spendere un po’ di più per il cibo di qualità a tutela della propria salute. E spiegare l’importanza del cibo biologico in senso più ampio: non soltanto perché il prodotto finale è privo di residui chimici, ma perché un’agricoltura più sana tutela davvero l’ambiente, dal clima alla qualità dei suoli». Un tema che anche Maria Letizia Gardoni sottolinea:
«Occorre una campagna educativa su scala nazionale, promossa dal Ministero delle politiche agricole. E poi investire sul marchio del biologico italiano, che rappresenta uno dei punti prioritari inseriti nella legge giunta in porto lo scorso anno. Anche per fidelizzare e rendere più forti i prodotti italiani nei mercati internazionali».
Residuo zero, filiera e biodistretti
Un nodo strategico resta, appunto, quello dei prodotti a cosiddetto “residuo zero”, come recitano le etichette applicabili quando i residui di prodotti fitosanitari di sintesi chimica siano inferiori o uguali a 0,01 mg/kg. Per i consumatori meno avvertiti può diventare sinonimo di un metodo che si basa soltanto su concimi organici: «Abbiamo la sensazione che il biologico – aggiunge la Gardoni – per molti cittadini sia diventato sempre più una questione di marketing e che l’attenzione si sia allontanata dal mondo agricolo verso quello della pubblicità».
Come recuperare dunque una relazione più forte fra consumatori e agricoltori, attraverso un patto che garantisca il giusto prezzo e la consapevolezza dei processi che stanno a monte del prodotto?
Una risposta sta nei biodistretti, che accorciano la filiera, riducono i costi e integrano i processi produttivi con i territori: «La legge sul bio – spiega Luigi Guarrera – li ha ufficializzati. Sono un’invenzione tutta italiana: i primi biodistretti sono nati, nel decennio scorso, tutti da noi. Gli altri paesi europei li stanno prendendo adesso come esempio: sfruttare questo vantaggio culturale, oltre che produttivo, sarebbe importante per permettere all’agricoltura italiana di reggere la competizione in uno scenario globale sempre più complesso».