Tondo o affusolato, inerme o spinoso, rifiorente o unifero, verde o violetto, cotto o crudo… Sua maestà il carciofo (nome scientifico Cynara cardunculus scolymus) è uno dei protagonisti indiscussi della nostra tavola. D’altronde quest’ortaggio ha trovato in Italia il suo habitat ideale, non solo per la sua ampia biodiversità – se ne contano centinaia di ecotipi raggruppati in quattro varietà principali: spinosi, violetti, romaneschi e catanesi – ma anche per la quantità prodotta.
Il Belpaese infatti, prima di Egitto, Spagna e Tunisia, detiene il primo posto al mondo per superficie coltivata a carciofo con oltre 38mila ettari, pari a circa 376mila tonnellate di raccolto, il 26% del totale.
Sapori del Meridione
Tra le regioni maggiormente vocate alla coltivazione dei carciofi, ai primi posti troviamo Sicilia, Puglia e Sardegna seguite a ruota da Lazio e Campania. E proprio in Campania, più precisamente tra i comuni di Castellammare di Stabia, Gragnano, Pompei, Sant’Antonio Abate e Santa Maria la Carità, in primavera fa capolino il carciofo di Schito, dal nome di una frazione di Castellammare. Comunemente detto violetto stabiese, questo carciofo è un sottotipo del romanesco, dal quale però si differenzia per la raccolta anticipata e per il colore delle brattee, rosa con sfumature viola.
La tradizione del Lunedì in Albis
Complici la mitezza del clima e la fertilità di una terra stretta tra il Vesuvio e il mare, il carciofo di Castellammare rappresenta una vera delizia per il palato, tant’è che durante la Pasqua assurge a simbolo gastronomico della tradizione contadina. In abbinamento con il salame dei Monti Lattari, si usa gustarlo il Lunedì in Albis cotto intero sulla brace e condito semplicemente con sale, pepe, prezzemolo, aglio e un filo d’olio evo.
L’antica tecnica del “pignatello”
Ma la vera rivoluzione sta nella tecnica di coltura che vede la copertura della mammolella (prima infiorescenza apicale della pianta) con dei pignatelli, delle coppette di terracotta realizzate da artigiani locali. Così facendo il carciofo viene protetto dal sole e dalle intemperie restando particolarmente tenero e di colore chiaro. Come ci racconta Sabato Abagnale, referente dei produttori del Presidio Slow Food di cui il violetto fa parte dal 2017:
«È una tecnica inventata dai nostri nonni, grandi agricoltori e architetti della biodiversità, gli unici che riuscivano a coltivare in modo sostenibile, senza fitofarmaci e con un occhio al paesaggio».
Radici imperiali
Ancora oggi sul territorio si ritrovano vecchi pignatelli che rappresentano una vera e propria scoperta archeologica. E, a proposito di scoperte archeologiche non dobbiamo dimenticare che qui ci troviamo in un’area storica di fama mondiale che nulla ha da invidiare ai vicini scavi di Pompei ed Ercolano se non per le ridotte dimensioni. In età imperiale infatti, verso la fine del I secolo a.C., l’antico sito di Stabiae fu prescelto dai romani come luogo di villeggiatura.
Attratti dalle sue bellezze paesaggistiche e dalla ricchezza di acque minerali ritenute terapeutiche, vi costruirono numerose ville d’otium riccamente decorate, nonché ambienti termali con piscine, palestre e biblioteche. E, furono sempre i Romani ad introdurre la coltivazione dei carciofi in questa fertile zona nota col toponimo di Orti di Schito.
Un doppio debito di riconoscenza dunque, culinario da un lato ed artistico dall’altro.
Tesori rivelati
Passeggiando sulla collina di Varano che sovrasta Castellammare, si possono visitare tre splendide domus romane riportate faticosamente alla luce negli anni ’50 dall’architetto Libero D’Orsi, dopo che la tremenda eruzione del Vesuvio nel 79 d. C. – in cui perse la vita anche Plinio il Vecchio – le aveva completamente sepolte. La più antica è Villa Arianna e deve il suo nome alla pittura mitologica presente sulla parete di fondo del triclinio che raffigura la principessa di Creta, abbandonata da Teseo a Nasso.
Riaperto al pubblico da tre anni, l’edificio è collegato alla pianura sottostante da una serie di terrazzamenti disposti su sei livelli che un tempo conducevano fino al mare. Quattro i nuclei principali visibili: l’atrio di accesso, gli ambienti di servizio e termali, le stanze ai lati del triclinio estivo e la grande palestra.
Dentro il Secondo complesso
Poco distante, percorrendo una stradina, si giunge ad una villa più piccola, la cosiddetta Secondo complesso. Della superficie di 5500 mq, ne sono stati scavati circa mille e, ciò che colpisce maggiormente, sono gli affreschi a sfondo nero in tipico stile pompeiano ed una vasca situata all’esterno delle cucine dove sono state ritrovate piccole parti di pesci, pronti probabilmente per essere cucinati e serviti.
E come disse Plinio…
Infine, eccoci davanti alla meravigliosa Villa San Marco, chiamata così per la presenza di una cappella costruita nella seconda metà del 1700. Ci s’incanta ad osservare il cortile con al centro una grande piscina ed intorno un porticato a colonne riccamente decorato con dipinti di centauri. Dal peristilio si apre un panorama incantevole sul Golfo di Napoli e sul Vesuvio ora sonnacchioso. E ci piace immaginare che fu proprio da quassù, mentre guardava impotente quella grande bocca di fuoco che Plinio il Vecchio poco prima di morire abbia detto:
«Quanto il tempo è più felice, altrettanto è più breve».