Ulivi, viti o castagni? Fichi d’india o campi di grano? Morbide colline, muretti a picco sul luccichio del mare o altipiani in fiore? Difficile decidere quale paesaggio agrario rappresenti meglio l’Italia. La cartolina giusta per descriverlo non c’è, se non quella del posto che ciascuno di noi porta nel cuore. Perché la ricchezza dei paesaggi italiani, l’infinita varietà dei luoghi forgiati dalle comunità, non si può condensare in una sola immagine.
Per scoprire al meglio questo bene comune, senza la pretesa di offrire un quadro completo, abbiamo chiesto aiuto alla professoressa Gabriella Bonini, a lungo responsabile scientifico della “Biblioteca Archivio Emilio Sereni” di Gattatico (RE) e autrice di diversi libri in materia:
«Il nostro paesaggio mostra forti diversità che derivano da clima, geografia e storia. Ed è il frutto dell’interazione fra uomo e natura anche con l’agricoltura e l’allevamento», spiega.
Specchio dell’identità
I paesaggi italiani danno grande valore alle popolazioni rurali e al settore primario, ci spiega la studiosa che fa parte della “Scuola di paesaggio” intitolata a Emilio Sereni, lo scrittore e storico dell’agricoltura, nonché membro dell’Assemblea costituente, autore della celebre Storia del paesaggio agrario italiano (Laterza, 1961): «Emilio Sereni intendeva il paesaggio agrario come specchio dell’identità nazionale – spiega Bonini – Uno specchio poliedrico di risorse territoriali, lavoro, culture, politiche, fallimenti e speranze, a conferma del contributo portato dai contadini italiani alla vita democratica del nostro paese».

Emilio Sereni. Foto: Wikipedia
Regione che vai…
La professoressa elenca le valli alpine ancora con pascoli e terre comuni, le terre aride della Sardegna con gli ultimi boschi mediterranei, la pianura padana punteggiata dalle cascine dove la presenza di bestiame e la possibilità d’irrigare permettono un’agricoltura estensiva di grano, mais e foraggere per produrre Parmigiano Reggiano in Emilia e Grana in Lombardia.
E ancora i grandi vigneti del Piemonte e del Veneto, le regioni centrali dove ancora il paesaggio agricolo conserva la tipologia dell’insediamento sparso tipico dei poderi mezzadrili. Infine, il Mezzogiorno ancora con aziende latifondistiche e zone a pascolo o a seminativo nudo ma con anche grandi orti, oliveti, vigneti e agrumeti come la grande Piana di Catania.
Bene comune da proteggere
Per proteggere questo bene comune occorre ripensare all’assonanza tra agricoltura, coltura e cultura: «La nostra è una civiltà fondata su cereali, vite, olivo e il loro valore va ben oltre il dato economico, diventa cultura, dignità sociale, paesaggio, cibo, salvaguardia ambientale, biodiversità», conclude la professoressa Bonini. Vi presentiamo perciò insieme a lei cinque tappe nel paesaggio italiano, per comprenderne la complessità e il valore.
E allora, pronti a partire? Buon viaggio!
1. I VIGNETI TERRAZZATI DELLE CINQUE TERRE
Il nostro tour comincia dalle Cinque Terre, in Liguria, dove i vigneti terrazzati e i muretti a secco sono stati inseriti dall’Unesco nella lista del Patrimonio mondiale dell’umanità nel 1997 come paesaggio culturale, «nato dall’armoniosa interazione tra l’uomo e l’ambiente naturale aspro e difficile». Un paesaggio atipico e fortemente antropizzato, dove l’uomo ha “modificato” l’ambiente naturale per ricavarne strisce di terra coltivabili, i cosiddetti ciàn, sorrette da chilometri di muretti realizzati senza uso di leganti o malte, secondo tecniche che si tramandano da generazioni.
Coltivare in salita
Le condizioni di lavoro dei contadini della zona sono state estremamente dure, anche per via della difficile, e spesso impossibile, meccanizzazione del lavoro. La vite, l’ulivo e gli agrumi, principali colture dell’area con una netta prevalenza della viticoltura, sono coltivate con pochissime modifiche rispetto a secoli fa. I terrazzi a vite bassa si estendono per una superficie complessiva di 989 ettari, nei comuni di Vernazza, Riomaggiore, La Spezia e Portovenere, che rientra integralmente nel Parco Nazionale delle Cinque Terre. La produzione è orientata verso vini di alta qualità, come i Cinque Terre Doc e lo Sciacchetrà Doc.

Foto: La mia Liguria
Nonostante l’abbandono di parte delle terre, i vigneti terrazzati restano in prevalenza integri e coltivati.
2. I PAESAGGI VITIVINICOLI DEL PIEMONTE
Un altro paesaggio agricolo insignito dall’Unesco come «paesaggio culturale di eccezionale bellezza» si trova in Piemonte ed è quello delle Langhe-Roero e Monferrato: colline coperte da vigneti e inframmezzate da piccoli villaggi di altura e castelli medievali. Il sito, denominato “I paesaggi vitivinicoli del Piemonte: Langhe-Roero e Monferrato”, si estende per quasi 11mila ettari fra Alessandria, Asti e Cuneo. Quattro aree vinicole, vale a dire “Langa del Barolo”, “Colline del Barbaresco”, “Nizza Monferrato e Barbera” e “Canelli e l’Asti spumante”, sono state selezionate in funzione del legame peculiare tra vitigno, terroir e tecnica di vinificazione.
Cantine sepolte
Le altre due invece sono identificate come «luoghi del vino di particolare valore»: il “Castello di Grinzane Cavour” in quanto testimonianza storica della viticoltura piemontese e il “Monferrato degli infernot” caratterizzato dalla presenza di questa singolare tipologia di architettura, gli infernot appunto, vale a dire delle piccole camere sotterranee scavate nella pietra da cantoni, una delle pietre da costruzione mioceniche più pregiate del Monferrato Casalese. Senza luce e aerazione, generalmente raggiungibili attraverso una cantina, sono utilizzati per custodire il vino imbottigliato perché hanno «caratteristiche di temperatura e umidità costanti che consentono l’ottima conservazione delle bottiglie più preziose», spiega il sito dell’Ecomuseo della pietra da cantoni.

Gli infernot del Monferrato. Foto: Ecomuseo della Pietra da Cantoni
I paesaggi di Langhe-Roero e Monferrato «incarnano l’archetipo di paesaggio vitivinicolo europeo per la loro grande qualità estetica», sottolinea l’Unesco.
3. LA PIANURA PADANA
Tra i paesaggi agricoli italiani non può mancare la Pianura Padana, sia per l’estensione, sia per la produttività che la caratterizza. Nonostante le sue trasformazioni, fino alla meccanizzazione dell’agricoltura che ha prodotto il paesaggio attuale, è un luogo che ancora conserva chiari tratti della sua storia. Le cascine naturalmente, purtroppo ormai in larga parte abbandonate.
Ma anche tracce ben più remote, come la geometria della centuriazione, risalente alla colonizzazione agraria romana avviata nel II secolo avanti Cristo: una divisione del terreno in tanti quadrati secondo due linee che si intersecano ad angolo retto e orientate secondo i quattro punti cardinali.

Foto: Marco Anghinoni / Getty-Images.
Reticolato romano
Avvenuta soprattutto nel periodo augusteo, la centuriazione diede un’impronta nuova e duratura al paesaggio agrario della pianura, fino ad allora occupata in gran parte da foreste e terreni acquitrinosi. Il reticolato, in cui si suddividevano le proprietà, ancora si legge nel paesaggio, benché questo, con le trasformazioni del ‘900, abbia perso il suo aspetto variegato: siepi, filari di alberi e viti hanno lasciato spazio ad aree uniformi sempre più vaste dove l’agricoltura è prevalentemente cerealicola e foraggiera oltre che di pomodoro visto che qui, nella Pianura Padana, si trova oltre il 50% dei terreni adibiti in Italia a questa coltura.
I processi di bonifica, l’estensione della rete irrigua, la specializzazione delle colture e un utilizzo della terra prevalentemente industriale hanno trasformato il paesaggio.

Foto: Istock Filippo Carlot
Ma quello agrario è un paesaggio resistente. Così, la Pianura Padana rivela, per chi li sa leggere, la forma dei campi e la distribuzione dell’insediamento contadino.
4. I PRATI STABILI E QUELLI DI ERBA MEDICA NELLA BASSA PADANA
Un altro esempio di paesaggio italiano, nella bassa padana, sono i prati stabili e i prati di erba medica. «In provincia di Reggio Emilia i prati stabili irrigui della Val d’Enza nel 2021 sono stati riconosciuti paesaggio rurale storico e dunque iscritti al Registro Nazionale dei Paesaggi Rurali delle Pratiche Agricole e delle conoscenze tradizionali da parte del Mipaff» tiene a sottolineare Gabriella Bonini.
L’area si estende su una superficie di 3.761,50 ettari all’interno dei comuni di San Polo d’Enza, Sant’Ilario d’Enza, Cavriago, Bibbiano e Montecchio Emilia. I prati stabili non vengono né arati né dissodati anche per oltre cento anni. Sono lasciati a una coltivazione spontanea e naturale, si possono solo irrigare e concimare con letame. Costituiscono perciò un vero e proprio ecosistema con molteplici tipologie foraggere diverse, graminacee e leguminose: il trifoglio bianco e violetto, il loietto perenne, l’erba mazzolina, le festuche, il fleolo, la coda di volpe, l’erba fienarola e molte altre, oltre a una incredibile varietà di insetti e di uccelli, anch’essi funzionali alla conservazione e alla salute del terreno.

Foto: Consorzio vacche rosse
Proteine verdi
In tutta la bassa pianura padana sono numerosissimi e ben custoditi anche i prati d’erba medica, una coltivazione che alterna quella del frumento. «È ricca di proteine, indispensabile come integratore naturale all’alimentazione delle vacche reggiane e parmensi che producono un latte di qualità eccezionale» aggiunge la professoressa.

Foto: Unione comuni modenesi area nord
Quel latte di qualità che fa da base a un’eccellenza italiana nel mondo, il Parmigiano Reggiano.
5. IL LATIFONDO NEL MEZZOGIORNO
Anche il latifondo (dal latino latus, vasto e fundus, podere), che contrassegnava le regioni del Sud, tra cui la vasta area granaria della Sicilia centrale, si propone come un paesaggio resistente. Gli ampi spazi, le poche masserie e il silenzio della campagna testimoniano la persistenza della storia e un valore culturale che prescinde dalle componenti negative del sistema agrario che vi era associato, vale a dire un’agricoltura estensiva lavorata dai braccianti con scarso impiego di mezzi e scarsissime innovazioni, e dal sostanziale fallimento delle riforme novecentesche destinate a riorganizzare le terre e trasformare il sistema di carattere feudale.
I latifondi erano terre agricole di proprietà di pochi grandi proprietari terrieri, estese per migliaia di ettari, a fronte di una scarsissima frammentazione del territorio. Con una gestione centralizzata da parte dei proprietari, una netta divisione tra le classi sociali e monocolture (grano, olive, agrumi o vigneti) lavorate dai contadini per salari molto bassi. Un paesaggio con prevalenza di cereali e pascoli legati alle migrazioni e alla transumanza, pochi alberi e poche case perché braccianti e coloni abitavano le cosiddette «città contadine», delle grandi borgate accentrate.

Foto: Sergdid/Getty Images
Sguardo sul futuro
«In questi anni si è assistito a un aumento delle produzioni di grani autoctoni, con cui i piccoli agricoltori sfidano la concorrenza granitica delle multinazionali e garantiscono il presidio del territorio e la sua tutela» si legge nel volume “II paesaggio della riforma agraria” (Istituto Alice Cervi, 2017) a cura di Fausto Carmelo Nigrelli e Gabriella Bonini. Per i due studiosi le politiche agricole e pianificatorie oggi sono chiamate a individuare e conservare questi preziosi paesaggi culturali che conservano la memoria plurisecolare delle comunità che vi abitano. Ma loro è anche un sguardo sul futuro:

Foto: Siciliarurale.it
«Soprattutto – affermano nel libro – sono reclamate a progettare una nuova relazione tra lo spazio di lavoro e le comunità che rendono possibile l’esistenza di questi luoghi».